Ucronia l'estinzione 666
et diabolus incarnatus est. et homo factus est.
Georgij Gapon
I retroscena della rivoluzione russa
Le memorie del Pope Gapon
a cura di Simonetti Casagrande Riccardo
fenomeni aerei non identificati
UAP
LE VITE DEL FIGLIO DEL DIAVOLO: L’INVASIONE NEI CIELI DEI CLONI DRONI PIÙ PAZZI DEL MONDO” pag 116
Parigi
Società di Edizione e Pubblicazioni
Libreria Félix Juven
122, Rue Réaumur, 122
SOCIALISMO REALE EDITORE
• IL GRANDE FRATELLO[3] VI GUARDA.
BIG BROTHER IS WATCHING YOU
chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato.
• LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L'IGNORANZA È FORZA[4]
WAR IS PEACE
FREEDOM IS SLAVERY
IGNORANCE IS STRENGTH
«E allora dov'è che il passato esiste, ammesso che esista?»
«Nei documenti. Sta scritto.»
«Nei documenti. E poi?»
«Nella mente, nella memoria degli uomini.»
«Nella memoria. Noi, il Partito, controlliamo tutti i documenti e la memoria di ogni singolo individuo, pertanto controlliamo il passato.»
1984 George Orwell.
"Dalla forma artigiana a quella industriale si è passati; nessuno può contestarlo e fare delle rivolte luddiste contro le macchine un programma per lo sviluppo della Scienza e della Tecnologia. Quale, nel marxismo, il rapporto tra Scienza teorica ed applicata, e Lavoro ogget- tivato, tra Scienza e Capitale? Marx ha qui un'espressione formidabile: il 'cervello sociale'. '. La tecno- logia dapprima, poi la scienza, si trasmettono di generazione in generazione come una dotazione dell'Uomo Sociale, della Specie, che in tutti i suoi individui vi ha lavorato e collaborato. Nella nostra costruzione il Profeta, il Sacerdote, lo Scopritore, l'Inventore, vanno verso una pari liquidazione. L'Uomo Sociale in queste pagine è detto anche Individuo Sociale, il cui senso non è 'persona umana' come cellula della Società; ma invece società umana trattata come un organismo unico che vive una sola vita (in questa forma entra nella scienza il mito ingenuo e sublime dell'Immortalità, attribuito dal pensiero umano bambino al singolo, come oggi Diritto ed Economia vogliono reggersi sul singolo, e vanno verso analogo crollo). Questo organismo, la cui Vita è la Storia, ha un suo Cervello, organo costruito dalla sua millenaria fun-zione, e che non è retaggio di alcun Teschio e di alcun Cranio. Il Sapere della specie, la Scienza, ben più che l'Oro, non sono per noi privati re-taggi, ed in Potenza appartengono integri all'uomo Sociale." ("Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica nella classica monolitica costruzione teorica del marxismo", Il programma comunista n. 19 e 20 del 1957)
INTRODUZIONE
Nel labirinto psichedelico e frammentato delle realtà multiple, Le vite del clone più pazzo del mondo si apre come un prisma rotto, che rifrange immagini e percezioni distorte attraverso l’intersezione di tre figure enigmatiche: Georgij Apollonovič Gapon, il pope trasformatosi in rivoluzionario e poi in agente dell’ambiguità; Walter Simonetti, il replicante ribelle, un’anima deformata dai giochi del potere; e Riccardo Casagrande, un uomo-clone che sfida le nozioni stesse di identità e umanità. A metà tra il manifesto di un’apocalisse imminente e una discesa negli inferi della mente, il romanzo opera con la tecnica del cut-up, lasciando che frammenti di memorie, deliri e narrazioni si mescolino in un flusso ossessivo e surreale.
Come un testo apocrifo scritto a quattro mani da Philip K. Dick e Nick Land sotto l’effetto dell’acido, il romanzo ci trascina in un universo dove la realtà si piega e si spezza, de-costruita alla maniera di Derrida. I protagonisti—o meglio, i simulacri di sé stessi—si muovono in una scacchiera temporale dove ogni mossa è un passo verso l’auto-annichilimento o la trascendenza.
L’intreccio si configura come un’operazione di chirurgia narrativa, un esperimento che frammenta le vite di questi personaggi fino a confondere i contorni tra umano e artificiale, sacro e profano, reale e allucinato. Attraverso un flusso discontinuo di confessioni intime, visioni di rivolte popolari, e deliri paranoici, il lettore è costretto a confrontarsi con una domanda inquietante: l’identità è un’illusione o una condanna?
Gapon, Simonetti Walter e Casagrande Riccardo non sono semplici personaggi, ma archetipi che incarnano le forze primordiali della sovversione, del tradimento e della rigenerazione. Attraverso di loro, il romanzo esplora il collasso delle ideologie, l’ossessione per la memoria e il desiderio impossibile di redenzione. Il metodo del cut-up diventa non solo una struttura stilistica, ma un commento sulla natura frammentata della modernità: una spirale di significati sovrapposti, dove ogni verità è solo il riflesso distorto di un’altra bugia.
Sospeso tra il cielo fiammeggiante della rivoluzione e il fango vischioso della follia, Le vite del clone più pazzo del mondo non offre risposte, ma si limita a spalancare abissi. Un grido anarchico e post-umano echeggia in ogni pagina: “Distruggete l’Ego! Distruggete la Storia! Noi siamo i fantasmi di un mondo che non esiste più.”
Nel caos sincronizzato di questa narrazione, c’è una poesia cruda, quasi brutale, che invita il lettore a smarrirsi e a ritrovarsi, un pezzo alla volta, in un mosaico che non sarà mai completo.
Il Manifesto del
Vuoto e i Cieli Sconosciuti
"Vi chiederete: perché scrivo?" inizia una voce, profonda, fredda, eppure incandescente
come il nucleo di un sole morente. Le parole sembrano scolpite nel metallo, un messaggio lanciato nello spazio-tempo. "Ecco perché.
Voglio iniziare a uccidere le persone." Una dichiarazione che risuona nella mente come un'esplosione nucleare
silenziosa. Unabomber — o ciò che rimane della sua memoria dispersa — si sovrappone al clone Walter Riccardo
Casagrande, V per vendetta come una macchia d’inchiostro che corrompe un foglio già sgualcito.
Le parole continuano, disossando la mente di chi le ascolta: "Se avrò successo, quando sarò preso (spero non vivo), ci saranno molte speculazioni sui giornali e in televisione per capire per quale motivo ho ucciso." L'identità stessa diventa un mistero, un enigma irrisolvibile.
"Diranno che sono malato, diranno che sono un uomo sordido o matto." Ma non è la follia a spaventare. È il lucido disprezzo per un mondo che brucia nelle sue stesse menzogne.
Mentre queste parole riecheggiano, il cielo sopra la scena si frantuma, rivelando qualcosa di alieno. UAP -Fenomeni Aerei Non Identificati. Un bagliore intermittente si riflette negli occhi di Casagrande. Sono luci che non appartengono al cielo terrestre, spirali di energia che sembrano scrivere codici nel vuoto. Forse un messaggio. O un avvertimento.
Gapon, il pope assassinato e risorto nella memoria collettiva, ascolta quelle parole come un antico che traduce un testo eretico "La malattia è un giudizio di valore," riflette, mentre osserva quei fenomeni luminosi. "Non è la malattia che definisce l'uomo, ma il modo in cui resiste al mondo che tenta di interpretarlo." Gapon percepisce il dolore di Unabomber come un'eco familiare: un grido che si oppone all'ordine imposto, un rifiuto della macchina del reale.
La narrazione si dissolve in una collisione di linguaggi.
Frammenti del manifesto di Unabomber si mescolano a immagini di UAP che danzano sopra una folla attonita. "Non ho mai avuto un grande desiderio di comunicare con altri esseri umani a livello personale o intimo," ripetono le voci. Ma le luci nel cielo sembrano comunicare
qualcos'altro: un codice che va oltre le parole, che sfugge al controllo del linguaggio umano.
Un ricordo si insinua nella mente di Casagrande: un amore consumato, un nome — mia moglie la strega — che diventa simbolo di tutto ciò che non è stato. Ma sotto la superficie, tra i residui della sua personalità frammentata, un'altra verità emerge: non siamo mai soli nelle nostre fratture. Gli UAP
sopra di lui sono testimoni silenziosi, messaggeri di un'alterità incomprensibile.
Conclusione provvisoria: Le
Vite che Non Tornano
Le vite di Gapon, Unabomber e Casagrande si intrecciano come un groviglio di fili elettrici sotto tensione. Il cielo si riempie di luci che nessuno riesce a spiegare, fenomeni che spaccano la logica e riscrivono le regole del possibile. E mentre le loro storie si dissolvono in un vortice di significati, la voce di Unabomber risuona ancora, fredda e inflessibile:
"Non si tratta della semplice verità di un nome, un'origine o una filiazione. La verità afferma, è la condizione per essere se stessi."
Ma quale verità può esistere in un mondo che non riesce nemmeno a decifrare i segnali di un altro cielo?
Capitolo Primo: Allegoria del Gigante Abbattuto
Ho fatto un sogno:
Una muta di cani divoratori, di tutte le taglie, di tutte le razze, si scagliava contro un gigante che giaceva nel fango, con la faccia a terra, insensibile. Il loro guardiano li sorvegliava, dirigeva attivamente i loro colpi, li eccitava. La muta ululante premeva sempre di più sul colosso. Le zanne già affondavano nella sua carne. I suoi miseri indumenti erano fatti a brandelli. Presto i cani iniziarono a leccare il suo sangue tiepido. Uno stormo di corvi, descrivendo cerchi nell’aria, discese volteggiando verso questa preda desiderata.
Ed ecco che avvenne una cosa meravigliosa. Il sangue scorreva goccia a goccia dal grande corpo; il sole giocava in esso come su tanti rubini, e da ogni goccia vidi nascere, come da un uovo misterioso, nobili uccelli che si alzarono verso il cielo. Erano aquile dalle ali potenti, falchi dallo sguardo d’acciaio.
Subito cercarono di difendere il gigante, di svegliarlo con i loro gridi, di richiamargli, davanti ai suoi vili aggressori, le sue forze dormienti.
A lungo il gigante rimase nel suo torpore. Poi un gemito sordo uscì dal profondo del suo petto; aprì gli occhi, ascoltò, semisveglio, semiaddormentato, non capendo cosa stesse accadendo, mentre gli uccelli benevoli lo strappavano alla sua stordimento e lo spingevano a combattere contro i cani e i corvi in una lotta mortale.
Fu una lotta sanguinosa, diseguale e senza pietà. Ma il gigante non sapeva ancora chi fossero i suoi amici e chi i suoi aggressori.
Finalmente, la coscienza gli ritornò; stirò lentamente i suoi enormi arti e lo si vide alzarsi nell’immensità della sua statura.
Con le mani vuote e vestito di stracci insanguinati, si voltò verso i cani e il loro feroce guardiano.
Quest’ultimo emise un fischio. Subito un nuovo personaggio apparve sulla scena: era un soldato ben armato, addestrato a obbedire a questo comando; sparò al colosso indifeso, poi si lanciò verso di lui, la baionetta in avanti.
Il gigante, gravemente ferito, barcollò, ma con la sua potente mano strappò l’arma e la gettò lontano. Mentre guardava il suo avversario, le sue labbra tremarono, i suoi occhi si velarono di tristezza. Vinto dalla disperazione, si coprì il volto con le mani e sembrava l’immagine stessa del dolore.
Nel soldato, aveva riconosciuto suo figlio, la carne della sua carne, l’osso delle sue ossa, smarrito fino a diventare parricida.
Ma presto il colosso si riprese; aveva un altro figlio, un figlio più umile, un fedele lavoratore della terra, che non avrebbe mai, lui, tradito suo padre. Ma dov’era? Perché non accorreva in suo aiuto?
Il gigante guardò intorno a sé e scorse lontano il suo altro figlio. Questi era forte, muscoloso, possente, virtuoso, bello nella sua semplicità. Era stato incatenato al suo aratro. Lavorava come uno schiavo per il beneficio degli altri, mal nutrito, con gli occhi bendati. Poteva questo figlio soccorrerlo?
Di nuovo, le labbra del gigante tremarono, lacrime pesanti, brillanti come diamanti, scorsero lungo le sue guance, inondarono il suo volto angosciato.
Guardai allora questo viso, questo nobile corpo del gigante, un corpo che rivelava al contempo la sua potenza e la sua debolezza. La sua bellezza era nascosta sotto macchie di vergogna; i suoi arti, capaci di grandi opere, erano stati indeboliti da tradimenti vergognosi.
Guardai anche, ai suoi piedi, il lago di sangue rosso brillante e, tutto intorno, il cerchio di cani voraci che mostravano i loro denti aguzzi. Allora il mio cuore sanguinò.
Perché, nel gigante, avevo riconosciuto la mia patria, la mia amata patria e il suo popolo.
E la sofferenza di un’ingiuria intollerabile invase il mio cuore come un serpente gelido, lo avvolse e lo strinse fino a spezzarlo. Il dolore mi svegliò.
Ahimè! Non fu che un breve sollievo! Il mio sogno non era che un semplice incubo, ma l’immagine stessa della realtà. E, in effetti, la mia patria, questa terra di fiumi maestosi, di foreste misteriose e immense, di pianure verdeggianti, bella in primavera come il sorriso di un bambino, vasta come l’anima stessa del suo popolo, e le cui ricchezze sono incalcolabili e le speranze illimitate, non è forse stata, per secoli, saccheggiata da una muta di funzionari avidi, grandi e piccoli?
I miei compatrioti, quelli di Dostoevskij e Tolstoj, di Vereščagin e di Rubinštejn…
…di illustri studiosi, di grandi filosofi e idealisti che hanno sacrificato tutto per la felicità dell’umanità e per un nobile ideale, non sono forse stati ignobilmente traditi, maltrattati, umiliati da padroni egoisti e crudeli?
Il mio Paese, che ha dato vita a una lingua così ricca e ha creato un genio nazionale così umano, non è stato forse privato della luce da un clero avido e ignorante che si è interposto tra essa e il cielo come uno stormo di corvi che oscura il sole?
I suoi stessi figli non sono forse stati spinti a massacrare, a migliaia, i loro compatrioti disarmati: uomini, donne e bambini pieni di ingenua fiducia verso il buon volere dello zar, andando a implorare il suo aiuto nella loro miseria?
Ahimè! Tutto ciò non è forse troppo vero? Ma in mezzo a queste tristezze, una nuova Russia si sta lentamente formando.
Lo sciopero di San Pietroburgo e gli eventi del gennaio 1905 sono stati come un fulmine che squarcia la nube oscura che avvolgeva la vita russa.
Non è stato invano che il popolo russo ha sofferto così a lungo. La sua miseria stessa aveva, per così dire, accumulato nella morale nazionale delle forze elettriche, tanto che al momento in cui esplose lo sciopero, bastò un lampo per infiammare gli spiriti. E come dopo il temporale giungono le dolci piogge tiepide che vivificano la terra, così anche l’orribile tragedia che sto per raccontare ha avuto effetti benefici
Il sangue generoso versato ha fecondato i semi così a lungo soffocati che giacevano nel profondo dell’anima popolare.
In queste circostanze, la Provvidenza mi ha scelto per eseguire i suoi decreti. Questo compito richiedeva alcune qualità che mi sono ritrovato ad avere. Come? Non posso spiegarlo meglio che raccontando la mia infanzia.
Non sono altro che un uomo; non mi considero superiore ai miei fratelli. Un altro avrebbe potuto fare ciò che ho fatto io. Ma è capitato che mi trovassi al centro del movimento nel momento della crisi.
Allora ho agito come avrebbe fatto chiunque al mio posto. Il popolo, quindi, si è naturalmente interessato a me. Ed è per questo che ho deciso di scrivere le mie memorie.
Capitolo II: La casa della mia infanzia
Permettetemi, innanzitutto, di ricordare alcune caratteristiche di mio padre e di mia madre, ai quali devo tanto.
Appartenevamo a una modesta famiglia di contadini stabilita nel grande villaggio di Biliki, provincia di Poltava (Russia meridionale). Mio padre ha oggi quasi settant’anni; mia madre sessanta. L’istruzione di mio padre fu impartita da un sagrestano di villaggio, un uomo coraggioso ma con conoscenze e idee piuttosto primitive.
Mio padre, tuttavia, possiede una conoscenza molto ampia di tutto ciò che riguarda la vita dei contadini, insieme a un modo di vedere semplice e diretto. È di un’onestà proverbiale. Di umore equilibrato, nei rapporti con gli altri contadini è sempre gentile e cordiale, incapace di fare del male nemmeno a una mosca.
In tutto il paese è rispettato e amato, e — fatto raro tra i contadini dell’Ucraina — non lo si chiama mai con il soprannome, ma con il suo nome patronimico, Apollon Fëdorovič, un’usanza che indica deferenza, mentre il soprannome denota una familiarità affettuosa.
Per trentacinque anni consecutivi, fu eletto come “Anziano” o come segretario del Volost (gruppo di comuni). Quest’ultima elezione è molto più significativa della prima, perché i segretari tenevano i registri e i conti, mentre gli Anziani erano spesso analfabeti.
Questi incarichi erano relativamente redditizi, poiché i contadini spesso ricompensavano i titolari con doni in denaro o in natura. Ma mio padre rifiutò sempre questi regali; è oggi, dopo tutta una vita trascorsa nell’incarico, più povero di prima. Non ha mai frustato i suoi figli, un fatto unico nel suo ambiente.
Da lui ho imparato a conoscere le ansie comuni dei contadini riguardo ai funzionari. Fu lui a raccontarmi come ogni centimetro di questa terra ucraina, che il governo ha successivamente dato agli sfaccendati, fosse stato in passato irrigato dal sangue eroico dei cosacchi.
E mi raccontava di quelle guerre di un tempo, quando i cosacchi combattevano per la libertà e la prosperità della nazione, erigendosi a difensori della cristianità contro i turchi e i tartari d’Oriente.
A volte, mentre eravamo tutti seduti sulla prisba (banco di terra attorno al muro della casa), passava una carrozza di qualche grande proprietario terriero. Mio padre me la indicava, sorridendo, e diceva:
— Guarda come sembra fiero; eppure la sua carrozza e tutto ciò che possiede vengono dal nostro lavoro!
Ma io non ridevo, anzi, prendevo un sasso e lo lanciavo contro la carrozza che già si allontanava sulla strada.
Mio padre mi insegnò anche quale ruolo umiliante avevano, nello Zemstvo (consiglio locale), i delegati dei villaggi. Praticamente non avevano alcun potere nelle decisioni, poiché, se diventavano minimamente scomodi, si trovava subito un pretesto per inviarli in prigione.
Ricordo che, a dodici o tredici anni, un giorno andai da mio padre nel suo ufficio al Volost. Lo trovai seduto sotto un piccolo chiosco, nel giardino, in compagnia dell’Anziano e del suo assistente.
E pensavo, guardandoli, che una popolazione di diecimila anime li avesse eletti per rappresentarli. Parlavano della differenza tra i tempi antichi e quelli attuali.
“Un tempo,” disse uno di loro, “il potere dei funzionari governativi era così eccessivo che, per mostrare quali libertà potevano prendersi con i rappresentanti dei contadini, facevano comparire l’Anziano davanti a loro, costringendolo a mettersi a quattro zampe e ad abbaiare come un cane davanti a tutti i villaggi.”
Mentre l’amico di mio padre raccontava questa storia suggestiva, si rallegrava del fatto che le cose fossero cambiate da allora. Ad un tratto, si udì il suono dei campanelli di un cavallo. Subito, l’Anziano e il suo aiutante, credendo che stesse arrivando qualche alto funzionario, sobbalzarono, spaventati.
L’Anziano, un uomo grosso con un’andatura pesante, si precipitò goffamente verso l’ufficio, mentre il suo aiutante lo seguiva, arrampicandosi dietro le siepi. Con aria innocente, chiesi allora a mio padre perché non imitasse i suoi compagni. Per tutta risposta, strizzò l’occhio con un sorriso malizioso.
Ricordo un’altra circostanza in cui lo sentii raccontare di come un contadino del villaggio fosse stato pubblicamente frustato. Tutti i russi considerano questa punizione così umiliante e inumana che…
…non osano affrontarla, per paura di essere distrutti, di conoscere il crimine di cui è la punizione. Spesso si è visto giovani contadini togliersi la vita per sfuggirle.
Per me, che non ero mai stato frustato, nemmeno a casa, quella storia era particolarmente spaventosa; e, sebbene mio padre mi assicurasse che un membro del consiglio come lui fosse esente da un tale castigo, rimasi a lungo turbato dall’idea che potesse un giorno subire questa infamia.
Come si può vedere, mio padre mi trattava più come un amico che come un figlio, nonostante la differenza di età tra noi. Aveva la severità di un fratello maggiore e il calore di un amico.
Che ne è stato di lui? Forse — e temo che sia possibile — la polizia lo sta perseguitando; forse sta soffrendo a causa mia. Quando penso a lui, lo vedo, a migliaia di chilometri di distanza, nella casa della mia infanzia, costruita tra boschi e praterie, e in quel quadro familiare appare un vecchio dal passo incerto, con lo sguardo triste.
Ricordo la sua speranza di un tempo; dovevo essere io, suo figlio maggiore, il suo sostegno nella vecchiaia: “Sarai tu, figlio mio, a chiudermi gli occhi.” E quando questa visione mi passa per la mente, non ho vergogna di confessare che mi travolge un’emozione
La figura di mia madre, invece, mi indirizzò soprattutto verso la vita religiosa. Sebbene analfabeta, il suo stesso padre, che viveva vicino a noi, sapeva leggere e dimostrava una grande pietà.
Passava gran parte del suo tempo leggendo la Vita dei Santi. Mi raccontava le sue letture, che influenzavano profondamente la mia immaginazione. A sette o otto anni, trascorrevo ore davanti alle sacre icone, pregando e versando lacrime per i miei supposti peccati.
Una delle storie che mi colpì molto riguardava un vescovo, San Giovanni, che, pregando con fervore, riuscì a imprigionare il demonio in una brocca d’acqua con il segno della croce. Il demonio supplicò di essere liberato, promettendo di fare qualunque cosa gli fosse richiesta. Alla fine, il vescovo accettò a condizione che fosse trasportato a Gerusalemme.
Questa storia mi impressionò enormemente e mi faceva versare lacrime di innocenza, ma allo stesso tempo desideravo intrappolare il demonio in una maniera simil
L’idea religiosa si manifestava in me in una forma fantastica; non ne subii meno il vigore. Ero profondamente impressionato dalla santità di tutti quei personaggi pii, anacoreti o altri, e sognavo di diventare un giorno simile a uno di loro.
Mia madre, con tutto il suo fervore, mi incoraggiava in questi sentimenti, convinta che assicurare la propria salvezza significasse garantire prima di tutto quella dei suoi figli.
Per quanto grande fosse la fame che potevo avere al ritorno a casa, non avrei mai preso un pezzo di pane senza permesso, anche se nessuno era nella stanza, perché in un angolo c’era posta l’immagine sacra del Cristo, i cui occhi sembravano seguire ogni mio movimento. Non avrei mai bevuto un sorso di latte il venerdì, per paura che mi spuntasse un corno in fronte.
Mia madre era una donna autoritaria. Nei rigidi inverni, con i nostri abiti leggeri, dovevamo andare in chiesa e cantare l’ufficio a squarciagola, anche se i nostri denti battevano per il freddo.
Ma col tempo iniziai a ribellarmi contro il dispotismo materno. Un giorno, all’ora della messa, mi lasciai cadere volontariamente nell’acqua per evitare l’uffici
Certamente, la religiosità di mia madre era sincera, ma notavo che, anche nel mezzo delle preghiere comuni, non poteva trattenersi dal tenere d’occhio tutto ciò che accadeva intorno a lei.
Se, ad esempio, uno dei maiali entrava nell’orto, si alzava precipitosamente, lasciando le sue devozioni per correre dietro al colpevole.
A volte, si metteva a raccontare una vita di santo e, poiché ero l’unico a sapere leggere, rimanevo “prigioniero” delle ore più belle della giornata, leggendo ad alta voce il libro prezioso e sacro.
Una volta dimenticai che era venerdì e fui sorpreso in cucina, intento a mangiare avidamente pane e latte proibiti. Mia madre, senza ulteriori indagini, mi inflisse una correzione sommaria. Questo trattamento fece nascere in me delle riflessioni, e fui colpito dal contrasto tra le forme della religione e la loro essenza.
Nella navata della chiesa, i fedeli urlavano i canti a pieni polmoni — e non dubitavo che ciò fosse necessario per la salvezza — ma era davvero indispensabile, mi chiedevo, indulgere in pettegolezzi e risate durante il canto?
Mi chiedevo ancora: il Signore onnipotente ha davvero voluto che fossi frustato oggi?
Mia madre era una donna di cuore eccellente. Contadina povera a sua volta, spesso dava agli indigenti, anche quando era più povera di loro. Nel nostro distretto non mancavano persone che non possedevano nemmeno un pezzo di terra e dovevano cercare rifugio e nutrimento dai vicini compassionevoli.
Mia madre sembrava un’anima piena di bontà, lottando come un uccello intrappolato nella rete del formalismo religioso.
Queste influenze opposte di mio padre e mia madre si combinavano, dando vita a una poesia particolare, propria dei paesaggi di questa Ucraina che veniva chiamata l’Italia russa.
Durante le lunghe serate autunnali, quando ci veniva chiesto di stare tranquilli, le donne della famiglia si mettevano a filare, cantando o raccontando storie. Mia madre, che cantava bene, conosceva molte canzoni popolari.
Quante volte rimasi sveglio per ascoltare le melodie malinconiche e la poesia ingenua delle leggende?
A volte era la triste sorte di una giovane ragazza che abbandonava il suo amante, un cosacco, per partire in guerra; altre volte, gli eroici exploit di qualche antico eroe nazionale.
Il villaggio di Biliki si trova sulle rive del fiume Vorskla. Numerose battaglie contro i tartari, durante l’espansione della Russia verso sud e ovest, lo resero celebre. Le colline circostanti erano coronate da alberi di quercia e pioppi.
Ascoltando i racconti sugli exploit dei cosacchi, la mia immaginazione infantile sentiva riecheggiare per sempre il clamore delle battaglie guerriere.
In questa Russia meridionale, dove il cielo è così puro, la magnificenza della volta celeste scintillante di stelle alimentava le mie idee romantiche.
Capitolo III: Entro negli Ordini
Torniamo al lato più prosaico della nostra vita quotidiana. Mi rivedo ancora bambino, a piedi nudi e con i capelli al vento, vestito come un piccolo contadino, intento nelle mie umili mansioni di pastore. Tutta la famiglia lavorava duramente; nessuno poteva considerarmi inutile.
Avevamo alcune pecore, dei maiali, che avevo il compito di sorvegliare; a volte mi affidavano anche un intero gregge di bovini. Ma soprattutto amavo le mie oche. Era per me un grande piacere osservare la lenta metamorfosi di un piccolo pulcino giallo in un elegante uccello bianco. Ero particolarmente orgoglioso del maschio dal piumaggio immacolato.
Dalla mia settima anno frequentavo la scuola primaria, e i progressi che facevo spinsero i miei genitori a lasciarmi proseguire gli studi. Ma in quale direzione? Quale carriera dovevo intraprendere? Due ragioni lo determinarono. La prima si esprime in un proverbio ucraino: “Un prete è una spiga d’oro”; la seconda era altrettanto valida: “Mentre guadagnerò il paradiso, aiuterò anche la mia famiglia.”
Fu deciso di mandarmi al piccolo seminario di Poltava. Erano quattro anni di studi, preceduti da un anno preliminare. Il successo ai miei primi esami mi fece entrare direttamente al secondo anno. Avevo dodici anni.
Con i miei abiti da piccolo contadino (moujik), mi sentii inizialmente un intruso tra gli altri studenti, tutti figli di preti o diaconi, che mi trattavano con disprezzo. Questo disprezzo si manifestava in piccole vessazioni, e la mia timidezza iniziale mi impediva di rispondere. Tuttavia, i miei rapidi progressi aumentarono la loro naturale gelosia.
Alla fine trovai un’occasione per ripagare i loro dispetti, e da allora la mia vita divenne più sopportabile. Nonostante ciò, continuai a vivere in una sorta di isolamento durante quei quattro anni.
Avevo quindici anni e stavo terminando l’ultimo anno di scuola quando uno dei miei professori, il signor Tréguboff, mi mise nelle mani alcune opere di Tolstoj, che esercitarono un’influenza duratura sul mio spirito. Per la prima volta capii chiaramente che l’essenza della religione risiede non nelle forme esteriori, ma nello spirito; non nelle cerimonie, ma nell’amore per il prossimo.
Da quel momento non persi occasione per esprimere queste nuove idee, soprattutto durante le vacanze, nel mio villaggio. Temo, tuttavia, di aver mostrato anche un carattere indisciplinato in occasioni meno serie, come durante le discussioni teologiche.
La corte della scuola era separata dal giardino del vescovo solo da una palizzata. A volte un gruppo di studenti — tra cui, ahimè, c’ero anch’io! — faceva un buco nella staccionata per sgattaiolare nel giardino episcopale nelle prime ore del mattino, quando tutto dormiva ancora nella casa.
A volte i giardinieri ci sorprendevano, costringendoci a battere in ritirata; ma ci organizzavamo sempre per non essere riconosciuti. Ripensando a queste piccole marachelle, non mi sento molto orgoglioso di me stesso.
Ben presto, però, mi trovai faccia a faccia con le tristezze della vita. La morte della mia sorella più giovane segnò il punto preciso in cui smisi di essere un bambino e divenni un uomo. Avevo sedici anni; lei non ne aveva che dieci. Quella piccola ragazza dai capelli dorati era la mia preferita, e avevo trascorso molte ore giocando con lei nei campi.
Dopo, entrai al grande seminario. Sotto l’influenza di un altro discepolo di Tolstoj, chiamato Feyerman, iniziai a oppormi ancora più fermamente a tutte le ipocrisie che vedevo intorno a me. Questo zelo mi fece denunciare alle autorità del seminario da un membro del clero locale.
Allo stesso tempo, uno dei ripetitori riferì che demoralizzavo la scuola, diffondendo semi di eresia. Di conseguenza, mi fu minacciato il ritiro della borsa di studio concessa dal governo agli studenti più brillanti. Risposi che non avrei più accettato quell’assegno e mi presi l’onere di provvedere da solo a tutte le mie spese
Affrontai le spese di collegio e pensione dando lezioni alle famiglie più ricche della zona e insegnando ai figli del clero. Spesso trascorsi le vacanze vicino agli studenti, avendo così occasione di osservare da vicino la vita privata dei preti russi. Li vidi celebrare i riti in stato di ebbrezza, e altre cose mi convinsero che un fariseismo sfacciato regnava tra loro.
Non avrebbero mai sacrificato il minimo conforto per il bene del popolo, ma sembravano sanguisughe. Tuttavia, spesso si presentavano occasioni per esercitare la missione evangelica. Ovunque vedevo solo miseria, eccesso di lavoro, sofferenze di ogni tipo. In un raggio di venti chilometri, c’era solo un medico, e il nostro grande villaggio doveva accontentarsi di un semplice infermiere.
D’altro canto, notavo sempre più il contrasto tra il Vangelo e le dottrine della Chiesa, così come l’ignoranza e l’ipocrisia del clero. Ero preso da un disgusto invincibile. Una febbre cerebrale, seguita da una febbre tifoidea, non ebbe altra causa se non lo stato di eccitazione mentale vissuto quell’ann
La malattia mi cambiò a tal punto che mio padre, venuto a visitarmi in ospedale, faticava a riconoscermi.
Quando ripresi a vivere, riflettei profondamente; giunsi alla conclusione che ero decisamente inadatto al sacerdozio. Iniziai quindi a distaccarmi gradualmente dalle regole del seminario, frequentando le lezioni sempre meno assiduamente e dedicandomi ai poveri del distretto: li aiutavo con i miei pochi mezzi, li istruivo, ascoltavo le loro confidenze. I direttori del seminario non ostacolarono le mie tendenze indipendenti, ma preparavano un piano contro di me.
Alla fine dei miei studi teologici si discusse della mia ammissione all’Accademia ecclesiastica; espressi il mio desiderio di frequentare invece un’università. Ma al momento di lasciare il seminario, scoprii che i certificati che mi erano stati assegnati contenevano valutazioni tali che nessuna università avrebbe potuto accettarmi. Questo metodo, comune in Russia, serviva a reprimere fin dall’inizio qualsiasi spirito indipendente
Per me, questa strategia significava spezzare la mia carriera e rinunciare a tutte le speranze coltivate. Inizialmente fui sconvolto e, ripensando a tutto ciò che avevo già sopportato, sentii nascere in me idee di vendetta. Tuttavia, l’arrivo di mio padre, che aveva sofferto a lungo per me, placò il mio animo.
Diedi lezioni, lavorai anche come statistico negli uffici del Zemstvo. Questa esperienza mi permise di osservare da vicino la miseria dei contadini, espressa in cifre e sintetizzata in rapporti che abbracciavano vaste regioni. Da quel momento decisi di dedicare la mia vita al servizio della classe operaia e, soprattutto, dei contadin
Pensavo che, completati gli studi di medicina, sarei andato a vivere tra i contadini, aiutandoli a curare le loro sofferenze fisiche e le ferite morali. Le mie letture di allora, così come ciò che sentivo sui rivoluzionari, ampliarono enormemente i miei orizzonti. Venni a conoscenza delle atrocità perpetrate in Russia, che dimostravano come uomini e donne sacrificassero tutto per la liberazione dei loro fratelli. Questa scoperta suscitò in me una profonda venerazione per loro.
Tuttavia, un evento cambiò i miei piani. Una giovane ucraina, figlia di mercanti, entrò nella mia vita. Era una ragazza intelligente e affascinante, e la nostra amicizia divenne presto qualcosa di più profondo.
All’inizio non le prestai molta attenzione, ma col tempo le nostre discussioni, spesso incentrate su come aiutare il popolo, mi avvicinarono a lei. Quando le rivelai i miei progetti, mi disse che la medicina, più che il sacerdozio, sarebbe servita al mio desiderio di apostolato.
Quando obiettai che i miei principi erano in conflitto con l’ortodossia della Chiesa, mi rispose: “L’essenziale è essere sinceri, non agli occhi della Chiesa, ma a quelli del Cristo.”
Alla fine mi convinse. Decisi di abbracciare la carriera ecclesiastica, e lei accettò di sposarmi. Tuttavia, nuove difficoltà sorsero.
La prima volta che chiesi ai suoi genitori il permesso di andare a trovarli, la madre acconsentì a malincuore, e mi fu detto di non tornare mai più. La mia fidanzata, ferita da questo rifiuto, dichiarò che non poteva rinunciare a vedermi e che i suoi genitori avrebbero fatto meglio a dare subito il consenso al matrimonio.
Con questi sentimenti, andai a trovare il vescovo Ilarion, a cui confidai il mio segreto. Gli parlai anche della mia decisione di entrare negli ordini e chiesi di diventare parroco in una chiesa del mio villaggio natale. Il vescovo, che mi era sempre stato benevolo, ascoltò attentamente. Davanti alla madre della mia fidanzata, criticò severamente l’ostruzionismo che portava al nostro matrimonio. Mi conosceva, disse, e rispose per me come se fosse lui stesso.
Questa iniziativa fu decisiva; ci sposammo, e poco dopo, fui nominato sagrestano e, dopo un solo giorno, diacono. Ricevetti così gli ordini. Tuttavia, non fui assegnato al nostro villaggio: il vescovo si oppose. Disse che aveva bisogno di uomini come me nelle città. Rimasi quindi a Poltava.
Durante tutto il tempo del mio ministero sacerdotale, devo dire, fui incredibilmente felice. Non solo avevo sposato la migliore delle amiche e collaboratrici, ma mi dedicai completamente all’insegnamento spirituale.
Mi sembrava che le persone povere, così gravate dalla vita e così prive di gioie, traessero conforto dalle mie prediche e dal mio entusiasmo. Questo alleviava le loro pene. Era soprattutto durante la celebrazione della messa, quando contemplavo spiritualmente il sacrificio del Cristo, che sentivo pienamente le gioie del mio sacerdozio. Tuttavia, accanto a questa esaltazione, mi trovavo di fronte alla realtà del clero, che mi feriva profondamente.
Il tintinnio delle monete sotto forma di offerte, lasciate dai fedeli per acquistare candele o durante le collette, mi disgustava. Il diacono sotto i miei ordini era una figura particolarmente triste: infermo, con una voce rude, vestito in modo trasandato, vedeva la Chiesa come una carriera lucrativa.
La sua avidità divenne così palese che gli proibii di continuare a esercitare qualsiasi funzione ecclesiastica sotto la mia supervisione. Predicavo incessantemente: “Non sono i riti né le offerte che contano, ma una vita vissuta bene e con bontà!”
A poco a poco, vidi crescere il numero di fedeli che si raccoglievano intorno alla mia chiesa, inizialmente solo una piccola cappella. Tuttavia, il successo del mio ministero suscitò la gelosia del clero circostante. Mi accusarono di sottrarre fedeli dalle loro parrocchie.
Cercai di vivere secondo il mio insegnamento: non consideravo il mio stato un mezzo per arricchirmi. Accettavo solo ciò che i fedeli decidevano di offrire volontariamente
La mia popolarità tra i fedeli aumentava, ma anche l’ostilità degli altri preti cresceva. Mi denunciarono al concistoro ecclesiastico, che mi inflisse una multa per aver officiato come sacerdote senza possedere formalmente il titolo di parroco.
Un giorno, un uomo anziano venne da me, supplicandomi di celebrare un servizio funebre per sua moglie. Mi spiegò che il suo prete gli aveva chiesto sette rubli, una cifra che non poteva permettersi. Durante l’incontro, compresi le ingiustizie finanziarie che i fedeli subivano, e decisi di intervenire.
Secondo l’usanza russa, il servizio funebre era seguito da un banchetto commemorativo. Mentre parlavo alla famiglia, il prete della parrocchia irruppe nella stanza, visibilmente ubriaco, e mi accusò violentemente di rubargli i fedeli. L’atmosfera si surriscaldò, ma riuscii a calmare la situazione. Tuttavia, fui nuovamente multato.
Fui sacerdote solo per due anni e sposato per quattro. Ebbi due figli, una femmina e un maschio. Dopo la nascita di nostro figlio, mia moglie si ammalò gravemente e morì, lasciandomi nel dolore.
La morte di mia moglie fu un colpo tremendo. Lei, profondamente religiosa, affrontò la malattia con coraggio, pregando ogni giorno. Dopo la sua morte, vissi esperienze mistiche che rafforzarono la mia fede. Sognai mia moglie pochi giorni prima che morisse, e mi descrisse nei dettagli il suo funerale, che si svolse esattamente come nel sogno.
Un’altra notte, vidi un’ombra bianca che mi condusse nella stanza accanto, dove scoprii un incendio. Questo incidente, che avrebbe potuto causare una tragedia, mi fece riflettere sulla protezione divina.
Dopo la morte di mia moglie, iniziai a perdere lucidità. La vicinanza al cimitero e i ricordi incessanti mi influenzarono profondamente. Decisi di cambiare vita e di fare domanda per entrare all’Accademia ecclesiastica di San Pietroburgo.
Comunicai i miei progetti al vescovo, che mi sostenne. Tuttavia, mi fu richiesto un certificato di buona condotta, un requisito che il seminario non volle fornirmi. Grazie all’intervento del vescovo, riuscii a fare domanda senza il certificato. Dopo mesi di preparazione, partii per San Pietroburgo pieno di speranza.
CAPITOLO IV
A San Pietroburgo. Speranze e disillusioni
Nel mio tragitto verso la capitale, mi sono fermato al Troitsky Lavra, il famoso monastero dove si recano ogni anno migliaia di pellegrini provenienti da ogni angolo della Russia e dove sono conservate le reliquie del suo fondatore, San Sergio di Radoniesk. Così facendo ho assecondato il desiderio del vescovo Hilarion che voleva che rendessi omaggio alle reliquie di San Sergio. A quel tempo non credevo più all’indistruttibilità del corpo dei santi. Tuttavia, una forza mi ha spinto ad inginocchiarmi davanti ai resti di quest'uomo; la sua vita rappresentava per me un ideale al quale sognavo ardentemente di avvicinarmi. Aveva cercato di conformare la sua condotta ai suoi insegnamenti-
menti. Non era uno di quegli anacoreti che si ritiravano in una tebaide, timorosi di restare a contatto con i peccati dell'umanità. Predicava l'amore del prossimo e lo praticava, donando agli altri tutto ciò che aveva e vivendo con la più perfetta semplicità. Ha professato il perdono degli insulti e lui stesso ha dato l'esempio. Pur essendo un santo, era un grande patriota e, per questo, lo amavo ancora di più. Ha benedetto il principe Dimitri Donskoi quando è andato in guerra per liberare la sua patria dal giogo dei Tartari. Gli diede anche, per assisterlo, due suoi monaci che brillavano tra i più illustri guerrieri di quell'epoca.
Quando mi sono avvicinato al monastero, la campana, la più grande della Russia, ha suonato solennemente, riempiendo lo spazio, facendo tremare la terra stessa, come mi sembrava, con la sua chiamata divina. Sono entrato in chiesa con il cuore pieno di amore e di venerazione per questo amico della verità e della semplicità, San Sergio. Mi affrettai, impaziente, a inginocchiarmi davanti al reliquiario. Ma in quel momento entrò nel tempio lo stesso metropolita di Mosca, Vladimir, con il suo lungo seguito di archimandriti e monaci minori. Vladimir conservava un'aria di grande semplicità; ma sono rimasto scioccato dal lusso della dignità
silenzi ecclesiastici, e l'apparenza alta di
monaci paffuti che lo accompagnavano. Il metropolita cominciò a cantare i vespri alla gloria di san Sergio, la cui festa cadeva il giorno successivo. I monaci e gli altri membri del clero modellavano i loro gesti su quelli del maestro, inchinandosi, facendo il segno della croce, con un'armonia così perfetta che li avrebbero scambiati per automi comandati dalla stessa macchina. Ma non potevo fare a meno di osservare che altre volte si abbandonavano a discorsi tra loro, anche a scherzi, piuttosto inappropriati in un luogo santo. La cerimonia religiosa ovviamente non aveva alcun significato per loro. La loro ipocrisia nella stessa casa di san Sergio, questo grande dispregiatore della menzogna, mi riempie di disgusto. E, prima della fine della funzione, lasciai la chiesa senza aver piegato il ginocchio davanti all'oggetto della mia venerazione; perché avrei considerato una bestemmia rivolgermi a lui sotto gli occhi di questi farisei grandi e smorfii.
Quando tornai nella mia stanza, trovai un telegramma da San Pietroburgo in cui si annunciava che la mia domanda di ammissione all'Accademia sarebbe stata esaminata due giorni dopo dalla Commissione per l'Istruzione del Santo Sinodo. Quindi sono dovuto partire immediatamente.
Il treno per San Pietroburgo partì da Mosca solo poche ore dopo, lo usai
questa volta per visitare, al Cremlino, la torre di Ivan il Grande. Il sagrestano, che mi accompagnò al campanile, mi mostrò la vecchia campana prelevata anticamente dalla Repubblica di Novgorod. Lassù, verso le nuvole, guardavo, in bilico sulle strade rumorose e popolose, questa campana con i bordi crepati e scheggiati dal maltempo secolare, e la mia fantasia si compiaceva di evocare questi uomini d'altri tempi che lei aveva chiamato loro al lavoro parlamentare.
A quel tempo non ero ancora un oppositore del potere assoluto. Eppure non potevo fare a meno di provare un sentimento di dolore e di rammarico pensando a questo stato libero che l'impero autocratico moscovita aveva assorbito.
Ho anche visitato l'antica Cattedrale dell'Assunzione, famosa per la sua maestria nel cantare antichi inni russi e per ottenere effetti così potenti. Incantato da questi brani melodiosi, mentre li ascoltavo perdevo conoscenza di tutto ciò che mi circondava. Mi apparve davanti il volto serio della mia giovane moglie Verochka; poi vidi di nuovo le teorie dei monaci corpulenti e pittoreschi della chiesa di San Sergio, e, sorgendomi il dubbio nella mente, cominciai a piangere.
Non ho potuto vedere molto di Mosca, ma ho amato questa città. Le sue strade strette e irregolari
lières, dove piccole e semplici case confinano con i palazzi, il Cremlino e le memorie storiche che evoca, tutto ha suscitato emozioni nel mio cuore. La vista dei giovani contadini, in piedi in mezzo alla strada, che pregavano con fervore, pieni di fede ingenua, con gli occhi fissi sulla chiesa, rafforzò ulteriormente questa impressione. Ma la straordinaria frequenza dei cabaret e degli innumerevoli poliziotti dai volti crudi e congestionati, illuminati da nasi rossi che testimoniavano inveterate abitudini di ubriachezza, mi causavano una grande tristezza.
Sono arrivato a San Pietroburgo la mattina, dopo aver trascorso un'intera notte in treno. Sono rimasto molto colpito dall'aspetto presentato dalla capitale russa. Mi aspettavo di vedere una città grande, umida, avvolta nella nebbia e nella foschia, con abitanti dai volti pallidi e febbrili e dai corpi emaciati, frutto di una vita malsana e innaturale. Ora si è scoperto che, in quella mattina di luglio, era tutto scintillante di sole, in bellezza, se così posso dire, e pieno di una folla attiva, rumorosa e gioiosa. Da quel primo giorno ho notato che la gente non sembrava depressa o malinconica, ma, al contrario, emanava energia e salute molto più degli abitanti della mia pacifica e poetica Poltava. Tuttavia le case erano tutte modello
uniforme che dava loro l'aspetto di tante caserme. È giusto dire che tra queste case c'erano molte caserme, perché soldati e agenti di polizia sciamavano per la città.
Il vescovo Hilarion non era l'unico interessato a me. Una ricca signora, proprietaria di considerevoli terreni vicino a Poltava, mi ha invitato a soggiornare nella sua casa, situata sull'aristocratico terrapieno dell'Ammiragliato. Ha scritto di me anche a Sabler, il potente procuratore aggiunto del Santo Sinodo. L'appartamento che mi ha messo a disposizione era molto confortevole e si affacciava su questo magnifico fiume: la Neva. Ma in quel momento ero così assorbito dalle mie preoccupazioni che a malapena notai queste cose.
Appena ho potuto sono andato a casa di Sabler. Mi ricevette subito, senza dubbio a causa delle lettere pressanti che gli erano state scritte sul mio conto. Ciò che avevo sentito da questo alto funzionario non gli gettava una luce molto favorevole. Mi è stato detto che, quando era ancora un semplice studente all'Università di San Pietroburgo, il giovane Sabler appariva assiduamente nelle chiese frequentate da Pobyedonostseff. Riuscì sempre a porsi in atteggiamento affettato sotto gli occhi del procuratore.
sembrava allora che pregasse con grande fervore. Si diceva che con queste pretese avesse fatto la conoscenza e si fosse guadagnato il favore dell'onnipotente padrone.
Successivamente Sabler riuscì a ottenere l'incarico di amministratore di uno dei castelli granducali. Non avrebbe dovuto fermarsi lì. Successivamente divenne assistente del procuratore del Santo Sinodo e divenne presto, in questo ufficio, il braccio destro di Pobyedonostseff, o addirittura il suo vice quando era assente o malato. Durante tutta la sua carriera, quest'uomo dai leggeri scrupoli non ebbe, si diceva, altra guida che i propri interessi. Principi, un ideale, il bene della Patria? Fanculo tutto questo! Diventare ricco, salire di grado, ecco cosa meritava le sue cure.
Non posso garantire l'esattezza di tutto ciò che mi è stato detto su di lui; ma ammetto che non mi ha dato l'impressione di un pio servitore di Dio. Era un uomo alto, con i capelli grigi; il suo sorriso era mellifluo, i suoi modi premurosi. Mi mostrò molto interessato, mi trattenne a pranzo con sé e promise di appianare le difficoltà per la mia ammissione all'Accademia di Teologia.
Sappiamo che ti sei comportato male in seminario, ha detto; sappiamo anche quali idee ti tormentavano la testa in quel momento. Ma il vescovo mi ha scritto che eri cambiato completamente da quando sei entrato nel sacerdozio e che avevi fatto tabula rasa di tutte queste sciocchezze. Sì, sì, ti accoglieremo; e siamo convinti che penserai solo a diventare un fedele servitore della Chiesa, che dedicherai a questa Chiesa ogni tua cura, escludendo ogni altra preoccupazione. Adesso vai a trovare padre Smirnoff, il direttore del Comitato per l'Istruzione del Santo Sinodo. Raccontagli la tua storia; poi vai subito da Pobyedonostseff, che sicuramente avrà sentito parlare di te dal tuo vescovo.
Così sono andato al Santo Sinodo, dove ho visto padre Smirnoff, un prete grande e mondano con un'aria di importanza, che mi ha scontentato con la sua arroganza. Mi ha dato la sua benedizione, anche se il suo grado nella gerarchia ecclesiastica non gli dava il diritto di benedire un altro sacerdote.
Davvero, mi ha detto, non so se soddisfi tutte le condizioni per entrare all'Accademia. Il mio amico, il professor Schegloff, mi ha parlato di te; mi ha raccontato come hai discusso contro di lui sull'origine di Cristo. Siete infettati dallo spirito della libera indagine e non abbiamo bisogno di liberi pensatori nella nostra Chiesa. Devo ammettere che questa domanda
Il tuo ingresso in Accademia mi lascia estremamente perplesso.
Questo colloquio mi gettò in un grande scoraggiamento e decisi di andare immediatamente a trovare Pobyedonostseff. Allora presi il treno per Carskoe-Selo, dove a quel tempo abitava il procuratore, nel palazzo imperiale. Il mio compagno di viaggio era un gentiluomo dall'aspetto rispettabile, con il quale conobbi presto. Era il messaggero privato di Pobyedonostseff. Ha provato simpatia per me quando ha saputo che ero stato prete a Poltava. Conosceva la città per averla visitata in compagnia del procuratore, e aveva consumato squisiti pasti a casa del vescovo Ilarione. Fu questo riconoscimento della pancia che gli rese Poltava così cara. Mi raccontò che Pobyedo nostseff pregava spesso nella chiesa del palazzo e spesso passeggiava nei giardini, con il libro delle ore in mano e mormorando preghiere. Ha aggiunto:
Probabilmente non lo vedrai oggi; innanzitutto difficilmente riceve membri del clero nella sua residenza estiva, e, inoltre, cena proprio alla tavola dello zar, in occasione della visita del piccolo principe Boris di Bulgaria. Ma voglio almeno provare a procurarti un pubblico. Credo di dovervi avvertire anche che il procuratore è abituato a trattare il clero
in maniera piuttosto sprezzante. Forse sarà più indulgente nei confronti di un sacerdote consigliato dal vescovo Hilarion, che tiene in grande stima.
Il messaggero mantenne la parola e, arrivato a Carskoe-Selo, fui introdotto nell'anticamera di Pobyedonostseff. Fui invitato ad aspettare lì finché il procuratore del Santo Sinodo fosse stato disposto a ricevermi. Rimasi solo, pensando, non senza apprensione, al potente personaggio che, con una parola, avrebbe potuto infrangere tutti i miei sogni per il futuro. E ho meditato sul triste destino della Chiesa russa, sottomessa in modo così assoluto alla volontà di quest'unico uomo: un laico, un funzionario governativo. La Chiesa russa non ha autonomia. Il Santo Sinodo, retto dal procuratore, è composto da vescovi che, formalmente obbligati ad appartenere all'ordine monastico, rimangono del tutto estranei ai bisogni del popolo! Non hanno alcun rapporto personale. Ogni vescovo esercita un potere assoluto sul clero della sua diocesi. Nomina i sacerdoti senza che nulla lo obblighi a tener conto delle qualità morali o intellettuali dei candidati, e può, se vuole, elevare al sacerdozio un porcaro o un mercante di quattro stagioni. Punisce o priva delle sue funzioni, a suo piacimento, qualsiasi sacerdote della sua diocesi, senza che quest'ultimo possa impugnare tale provvedimento. Perché se un prete offeso dovesse rischiare
ricorso al Santo Sinodo contro la decisione del suo vescovo, la Corte suprema non mancherà di rimettere, per ulteriori informazioni, il fascicolo del caso al vescovo interessato.
I sacerdoti, dal canto loro, sono padroni assoluti dei beni ecclesiastici nelle loro parrocchie, e li amministrano come vogliono; i parrocchiani non hanno voce in capitolo. Quindi non esiste salute morale all’interno della Chiesa; si trasformò in una sorta di direzione burocratica. della religione sotto il governo di Pobyedonostseff.
Questo era l'oggetto delle mie riflessioni quando, all'improvviso, alle mie spalle, una voce acuta pronunciò:
Cosa vuoi?
Mi sono voltato velocemente. Davanti a me stava un vecchio dal volto scimmiesco e dallo sguardo di ghiaccio: era lui il grande inquisitore, l'uomo che aveva saputo, nascosto nell'ombra, spingersi senza rumore in prima fila. Era magro, di media statura, leggermente curvo e indossava abiti da sera.
Desidero essere ammesso al concorso per l'Accademia, e sono venuto a chiedere a Vostra Eccellenza di intercedere per me.
Pobyedonostseff, ascoltandomi, mi scrutava attentamente con gli occhi. E all'improvviso:
Qual è tuo padre? Sei sposato ? Hai figli?
Aveva abbandonato quelle domande affrettate con voce aspra e secca. Gli ho detto che avevo due figli. Ha esclamato:
Ah! bambini! Non mi piace molto. Che tipo di monaco vorresti essere quando avrai dei figli? Davvero un monaco molto povero! Non posso fare niente per te.
E all'improvviso mi ha voltato le spalle come per andarsene. Il suo modo di parlarmi e il pensiero che con quella insolente noncuranza stava rovinando tutti i miei sogni per il futuro mi fece uscire questo grido di dolorosa protesta:
Ma, Eccellenza, dovete ascoltarmi! Per me è una questione di vita. Non mi resta che una sola strada, ora quella di dedicarmi interamente allo studio per imparare a rendermi utile ai miei fratelli. Non posso andarmene a causa di un rifiuto.
Sicuramente qualcosa nel mio accento lo colpì, perché si era girato verso di me e mi ascoltava, con aria sorpresa, mentre il suo sguardo acuto cercava di penetrarmi l'anima. E all'improvviso è diventato amichevole. Lendini
SÌ . Il vescovo Hilarion mi ha parlato di te. Bene, vai a trovare padre Smirnoff, ma
andare a casa sua. Attualmente vive a Carskoe-Selo. Chiedagli da parte mia di inviare una relazione favorevole al Santo Sinodo.
E detto questo è scomparso.
Il giorno dopo ho rivisto padre Smirnoff e, questa volta, mi ha promesso, senza esitazione, un rapporto favorevole del Comitato per l'Istruzione. Mi ha inoltre consigliato di visitare il presidente del Sinodo, il metropolita Palladio, per garantire, ha detto, il risultato desiderato. Ho seguito il suo consiglio.
Quando il metropolita ebbe dato la sua benedizione a tutti i postulanti riuniti nella sua sala delle udienze, mi avvicinai e gli spiegai il mio desiderio.
Il buon vecchio cominciava già in quel periodo a soffrire di un rammollimento cerebrale, e la mia richiesta, per un motivo o per l'altro, ebbe il dono di gettarlo in un vero e proprio accesso di furia. Cominciò a battere il pavimento con il bastone pastorale e nello stesso tempo mi lanciò dei veri e propri ululati, senza dubbio per dimostrare a tutti i presenti quanta stima avesse per un povero prete di provincia.
Di Poltava? ha preso d'assalto. Cosa stai cercando qui? L'Accademia? Cosa farai lì? Perché mi dai fastidio? Lasciami in pace!
Ho lasciato la stanza, con il cuore pesante, avendo perso ogni speranza. Ma in ufficio sono stato informato
fu non poco sorpreso che la questione della mia ammissione fosse già stata esaminata dal Sinodo sotto la presidenza stessa di Palladio, e che la mia richiesta fosse stata accolta favorevolmente.
Poco dopo Palladio morì e Antonio fu promosso metropolita di San Pietroburgo e presidente del Santo Sinodo. Ho avuto diverse occasioni di incontrare Antonius, di cui parlerò più avanti.
Mi restava solo un mese per prepararmi al concorso; quindi mi sono subito messo al lavoro. Lavoravo diciotto ore al giorno e a quel tempo riuscivo a malapena a leggere tutte le materie del programma una volta. Alla vigilia dell'esame ero in uno stato nervoso straordinario; Le mie mani tremavano al punto che non riuscivo a tenere una matita. Quando ho voluto assicurarmi di conoscere bene il mio argomento, mi sono reso conto con terrore che non ne rimaneva una parola nella mia testa. Disperato, andai a letto e un sonno profondo mi colse.
Mia moglie mi è apparsa ancora una volta in sogno. Mi ha baciato e ho sentito che questo bacio mi ha portato via tutto il peso delle mie preoccupazioni.
Quando mi sono svegliato, ero consolato e pieno di fiducia. Sono andato nell'aula d'esame e ho fatto così bene che la giuria mi ha premiato
congratulazioni. Ciò mi è valso, oltre all'ammissione come allievo dell'Accademia, una delle migliori borse di studio dell'istituto.
Venni pertanto ad alloggiare negli edifici dell'Accademia di Teologia. Troverò finalmente qui, mi dicevo, quale dovrebbe essere lo scopo della vita, una domanda che mi ha sempre tanto tormentato. Speravo ancora di trovare lì un campo per il libero sviluppo del mio pensiero, per la ricerca, fuori da ogni costrizione, della verità, senza dover fare i conti con le banalità del ritualismo ecclesiastico o delle convenzioni sociali. L'alma mater della ragione pura e della scienza pura mi aveva aperto le sue porte e io le attraversai, con il cuore ringiovanito, pronto per un lavoro arduo e una vita seria.
L'Accademia di Teologia, in Russia, è l'asilo nido dove vengono reclutati i docenti delle scuole ecclesiastiche e dei vescovi. Coloro che, al termine degli studi presso l'Accademia, sentono la necessaria vocazione prendono gli ordini monastici e, entro i termini normali, diventano vescovi. Non c'è dubbio, pensavo, che acquisirò qui la conoscenza che mi permetterà di servire utilmente la causa della verità e i miei concittadini.
Ahimè! stava arrivando la disillusione. Non ci ho messo molto a convincermi, infatti, che la maggior parte degli studenti prendeva solo un voto mediocre
interesse per la ricerca della verità religiosa e morale. Gli insegnanti, del resto, se ne preoccupavano tanto quanto i loro studenti.
L'insegnamento era interamente formalista e scolastico. Non c'è stato alcuno sforzo per ricercare lo spirito delle Sacre Scritture; ci siamo attenuti esclusivamente alla lettera. Avevamo ricevuto come guida una traduzione da qualche commentatore straniero delle Scritture, e durante le lezioni i professori entravano molto nei dettagli sul modo in cui questa o quella frase dei libri sacri era stata interpretata dai diversi Padri della Chiesa e da teologi stranieri. Era evidente che i professori avevano paura di esprimere la loro opinione personale sull'argomento e che non osavano nemmeno azzardare indagini per penetrarne il significato. Ci venivano date lezioni su altre religioni; ma i nostri maestri, nel criticarli, hanno accuratamente evitato di contrapporre i loro meriti alle loro debolezze. Si sono limitati a evidenziare alcuni errori evidenti, per concludere con il rigetto di tali convinzioni.
Se si esclude il signor Bolotoff, uomo serio e di alto valore intellettuale, che insegnava la storia della Chiesa, tutti i professori erano inadatti a compiere la missione loro affidata. Ad esempio, colui che si occupava della divinità di Cristo, un giovanissimo, aveva coperto
fuma per presentarsi alla sua classe con la faccia sconfitta, gli occhi gonfi. Compagni ben informati mi hanno detto che ogni notte si abbandonava all'ubriachezza e alla più bassa dissolutezza. E dopo un simile impiego del suo tempo, questo professore ha osato venire a parlarci della Sacra Famiglia con perfetta sfacciataggine, come se fosse uno dei suoi parenti più prossimi! Come avrei potuto non sentirmi ribelle? E cosa sorprende se le classi talvolta riunivano soltanto due o tre alunni, se altri, seguendo l'esempio dei maestri, indulgevano all'ipocrisia e frequentavano le osterie, se altri, infine, fuggendo dallo stato ecclesiastico, cercavano di ottenere qualche lucrosa posizione? nel monopolio degli alcolici o di intrufolarsi in varie amministrazioni . Già al seminario maggiore ero stato colpito dallo stesso triste fatto: gli studenti migliori, terminati gli studi, rinunciavano al sacerdozio per intraprendere qualche professione liberale. I giovani intelligenti e seri non si sentono a loro agio nell'atmosfera corruttrice della Chiesa russa; se ne vanno, e la loro defezione lascia nella Chiesa solo gli ignoranti, gli incapaci e i dissoluti.
A poco a poco ho perso ogni interesse per le lezioni. Ho visto chiaramente che non avrei acquisito alcuna vera conoscenza da questi insegnanti. E mi misi solo e con ardore allo studio dei maestri. Ho provato da solo-
prendere sul serio, per quanto possibile, i componimenti su argomenti teologici che gli studenti devono fornire di volta in volta. Tuttavia, la mia prima composizione suscitò un severo rimprovero da parte del professore, nonostante avessi cercato di esprimere le mie idee nel modo più chiaro possibile.
Non devi formare le tue concezioni personali basate sui vangeli, mi ha detto. Ti devono bastare le glosse dei Padri.
Un'altra volta ho voluto trattare con onore un argomento di composizione. Sono stato minacciato di licenziamento. Allora sentivo ancora la terra che mi scivolava via a poco a poco sotto i piedi.
In quel periodo il vescovo di San Pietroburgo, Benjamin, che aveva sentito parlare di me dal vescovo Hilarion, mi invitò a partecipare ad una missione a favore delle classi lavoratrici. Doveva avere la sua sede presso la chiesa in via Borovaya. Gli operai: uomini, donne e ragazze, un tempo si riunivano in questa chiesa dove i missionari si sforzavano, attraverso le esortazioni, di migliorare la loro moralità. L'opera era stata interamente rovinata dai litigi sorti tra i due preti che governavano la chiesa; Il vescovo Benjamin ha voluto rilanciarlo.
Il primo incontro a cui ho partecipato mi ha colpito profondamente. Ho visto una folla lì
uomini e donne dai volti pallidi e smunti, miseramente vestiti e portanti tutte le stimmate di una miseria infinita. Eppure, nei loro occhi, leggo un ardente desiderio di luce e di verità. Il missionario aveva preso come tema i comandamenti relativi all'intemperanza e alla lussuria, e ai terrori del giudizio finale. Sentivo che queste parole non rispondevano alle esigenze di questi ascoltatori di buona volontà. Ciò che occorreva era incoraggiarli a nuovi sforzi; era necessario dare loro più fiducia nelle proprie forze; e lasciarono la chiesa più depressi di quanto fossero venuti, sconvolti dalle terribili descrizioni che erano state loro date del Dio vendicativo. Desideravano il perdono e l’amore di Cristo, ma veniva loro parlato solo il linguaggio terrificante di Geova. Come avrebbero potuto evitare la debolezza e il peccato quando nessun raggio di luce e di speranza li raggiungeva?
Nel successivo incontro dei missionari espressi il parere che per rafforzare l'opera della missione fosse necessario organizzare gli operai in associazioni cooperative. Migliorerebbero così la loro esistenza materiale, preliminare che ritenevo necessaria per la loro guarigione morale e religiosa. Ma la missione non entrava in me
viste.
Quando venne il mio turno di salire sul pulpito, io
Ho cercato di convincere i miei ascoltatori che avevano i mezzi per migliorare la loro situazione. Ma ho capito, ahimè! che non avevo espresso loro tutti i miei sentimenti al riguardo, che non avevo mostrato loro un modo pratico, finalmente, per rendere sopportabile la loro miserabile vita. Sentivo dietro di me l'ostilità dei miei colleghi e, d'altra parte, personalmente non potevo fare nulla per le persone a cui ero chiamato ad insegnare. Disperato, finii per abbandonare il lavoro della missione.
I miei pensieri cominciarono a volgersi verso qualche rifugio pacifico, verso qualche monastero dove avrei condotto una vita di preghiera nel cuore della natura, e dove i miei occhi non sarebbero mai stati turbati dalla bruttezza della vita.
Il mio cervello ne fu colpito, così come il mio corpo, e i miei amici, seriamente allarmati, aprirono un abbonamento sovvenzionato dall'Accademia per mandarmi in qualche resort dove avrei avuto la possibilità di ristabilire completamente la mia salute. Di conseguenza presi la strada per la Crimea.
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